Sono trascorsi 15 anni dal furioso incendio che la mattina del 9 giugno 2010 distrusse completamente la sacristia della chiesa parrocchiale di Santa Maria del Campo, arrecando gravi danni all’intero edificio sacro ed al suo prezioso patrimonio artistico.

Le reali cause non furono mai appurate, ma una serie di fortunate circostanze, tra cui la presenza in zona di alcuni passanti ed il suono a distesa delle campane entrate in funzione autonomamente forse a causa del calore sprigionatosi all’interno del locale, consentirono al parroco di dare prontamente l’allarme permettendo così ai Vigili del Fuoco di contenere le fiamme ed impedendo al rogo di estendersi alla navata evitando così un disastro ben peggiore.
Oltre a numerosi arredi sacri e paramenti, andarono perdute anche numerose opere d’arte; tra queste una pala d’altare che si trovava proprio sopra la porticina d’accesso all’abside e raffigurante San Giuda, San Simone e San Bernardo.

Dal Catalogo generale dei Beni Culturali si evince che “si tratta di un’opera ingenua e popolare di carattere devozionale, accentuato anche dalla dedicazione. Non manca una certa vivacità soprattutto nei volti caratterizzati dei tre Santi. L’opera, ancora di moduli tardomedievali, pare non risentire delle innovazioni cromatiche e spaziali cinquecentesche”.
Un’iscrizione in italiano con inflessioni dialettali posta nella parte inferiore della cornice permette inoltre di risalire ai presunti committenti, tali Batta e Pantalino Barbagelata, unitamente alla data di realizzazione, il 2 febbraio 1618:
“1618 AD 2 FEBRAIO – BATTA E PANTALINO BARBA GELATA DEL SUO PROPRIO”

Relativamente ai soggetti raffigurati, da sinistra a destra si possono osservare in primo luogo San Giuda Taddeo e San Simone, apostoli tra i meno conosciuti, ma paradossalmente tra i più stretti conoscenti di Gesù in quanto suoi cugini. Per quanto riguarda Giuda Taddeo infatti, dalle Scritture si evince che suo padre, Alfeo, fosse fratello di San Giuseppe, mentre sua madre, Maria Cleofa, fosse cugina della Vergine; quanto alle origini di Simone lo Zelota (detto anche il Cananeo), esse sono ancora oggi piuttosto incerte.
I due apostoli vennero arrestati durante la predicazione e, al rifiuto di dedicarsi al culto della dea Diana rinnegando Cristo, si narra che Giuda Taddeo abbia dichiarato falsi gli idoli pagani e che nello stesso istante due orribili demoni siano usciti dal tempio distruggendolo. A quel punto la gente che assistette alla scena, spaventata, s’avventò con ferocia sui due malcapitati che vennero brutalmente uccisi. Le loro reliquie sono custodite nella Basilica di San Pietro a Roma.
Nell’iconografia popolare (e così pure nel quadro andato perduto) San Giuda viene raffigurato con un’alabarda e San Simone con una sega, simboli del rispettivo martirio.
Ma è proprio analizzando la storia personale di San Giuda Taddeo che emerge il primo segnale inquietante celato nel dipinto e avente a che fare con il fuoco.
Pare infatti che la peculiarità del modo di evangelizzare di Giuda Taddeo fosse l’utilizzo di un’icona molto particolare, una stoffa recante impressa l’immagine del volto di Gesù Cristo da mostrare alla folla durante la predicazione forse per indurre più facilmente alla conversione.
Tale particolare usanza ha trovato una prestigiosa conferma nel 1977, quando la famosa sindonologa Emanuela Marinelli, attraverso lo studio degli spostamenti del Sacro lenzuolo funerario di Torino nel medio oriente, ha avanzato l’ipotesi assai fondata che l’icona che Giuda Taddeo recava con sé e che utilizzava per convertire i popoli non fosse altro che il Mandylion, ovvero il lenzuolo che avvolse il corpo di Gesù quando fu adagiato nel sepolcro, lenzuolo che altri non è che la Sacra Sindone di Torino, all’epoca ripiegata in più parti dall’apostolo in modo tale da mostrarne solamente il volto impresso del Cristo.
Quella stessa Sindone che per ben due volte rischiò di essere distrutta dal fuoco, la prima durante l’incendio della cappella di Chambery la notte tra il 3 e 4 dicembre 1532, la seconda a Torino durante il rogo della Cappella del Guarini (o Cappella della Sindone) la notte tra l’11 e 12 aprile 1997.
Ma l’elemento fuoco è in qualche modo celato anche dietro al terzo santo raffigurato sulla tela di Santa Maria, ossia San Bernardo da Chiaravalle, qui raffigurato con l’abito bianco tipico dei monaci cistercensi, mentre impugna il pastorale leggendo un libro e tenendo “al guinzaglio” un demone panciuto e in catene.
Secondo una leggenda infatti, durante un soggiorno a Milano Bernardo decise di raggiungere Vigevano per predicare la seconda crociata al fine d’incitare la popolazione ad arruolarsi e scontrarsi con gli infedeli.
Si narra che durante un viaggio verso la Lomellina un diavolo abbia ostacolato il santo tentando di staccare una delle ruote del suo carro; catturato il demonio, pare che Bernardo lo abbia legato forzatamente alla ruota ridotta in pezzi proseguendo così il suo viaggio. I vigevanesi, venuti a conoscenza dell’imprevisto, prepararono una pila di legna in modo da condannare al rogo l’essere maligno, il quale venne legato e posizionato sulla pila dal santo stesso per poter essere arso. Spentesi le fiamme, Bernardo raccolse le ceneri del demone (ribattezzato dai vigevanesi dell’epoca col nome di Barlic) che, per volontà del santo stesso, vennero amalgamate con calce in modo da formare un mattone.
Un’ultima curiosità: l’anno di realizzazione dell’opera, ossia il 1618, è passato alla storia per l’inizio della Guerra dei Trent’anni (1618-1648), un interminabile e devastante conflitto continentale avente le sue lontane origini nella rottura dell’unità cristiana provocata dalla Riforma di Martin Lutero nel 1517.
Da questa breve analisi emerge dunque, col senno di poi, come il destino della pala d’altare di Santa Maria fosse già scritto nella sua stessa simbologia, un quadro sfortunato insomma, ma allo stesso tempo metafora del bene che, come San Bernardo col demone, alla fine prevale sul male.
Stefano Podestà